Gualberto Alvino
DA CACCIA, DA SÉGUITA E DA FERMA
DISTASSIE DEL MELO E DELLA FOLGORE
Introduzione di Giovanni Fontana
DISTASSIE
FOLGORANTI E TARSIE
Poesie
de desegnio et meglio finitte
di Giovanni Fontana
Quando infuria la peste si ammucchiano corpi
nei quadrivi. Verranno i carri a caricarli. Con maschere a becco. Del
malaugurio. E brancicheranno su carteggio spurio.
Cialtroneggiano insipienti praticanti di
rimedi fasulli. Dispensatori balordi di pappe vane. Sterili panacee. Idee
balzane. Marchiane.
E sono sempre i migliori che se ne
vanno. Dice qualcuno. Quelli che sanno. Come il gran Zorzo. Cui mirava Isabella
di Mantova. Celeste. Luminosa marchesa D’Este. Che aspirava a “una pictura de
una nocte molto bella et singulare”. E Zorzo ne fece. Per Thadeo Contarini. Una.
“De miglior desegnio et meglio finitta”. Un’altra. Per tal Becharo. Victorio.
Cui caro era il lavoro. Per notizia rara. Ora. E ignota dimora. Entrambe le
notti indisponibili.
Ma non avrebbe mai potuto. Giorgione. Esaudire
in alcun modo la richiesta. Essendo ormai passato a miglior vita. Di peste? O di
mal francese?
C’è il mestiere di Zorzo in questi
testi? Qui la va tutta in diesis. Con molte alterazioni sopratono. Ut pictura
poesis. O poiesis. E siamo lontani per tempi e tecniche. Contesti pretesti gesti
e palinsesti. Ma si rintracciano. Criptiche. Qui. Le allegorie. E anche
parabole a volo. E allusioni ghignanti.
C’è la metafora insolvibile che spinge
al margine. E la parola che gratta e infratta. Abburatta e acquatta. Che ovatta
e sgambetta. Detta. Disdetta. Discetta. Getta e rigetta. Proietta e sfiletta.
Impatta. Deborda. Ma alla stretta è alla corda. E c’è una corretta reticenza
nel dire.
Senza dubbio la lingua è protagonista
assoluta. Come fu la pittura in quella notte così bella e singolare. Lingua
esuberante in un tripudio di immagini e di indagini in campi glottologici e
fonetici. Sonori. Sempre modellata e rimodellata. Come disfatta. E ripensata. O
incontrata. Scovata. Strappata. Scucita e ricucita. Ma da Alvino comunque sempre
dominata con sapiente regia. Essendo padrone di sé. Ordinatore. Lettore e
scrittore. Abile in tecniche poetiche di composizione. Compos sui. Tra fumi torbidi e distanze notturne. Algebre acustiche.
Anche tra soluzioni indecifrabili. Sfidando la peste putrida dell’equilibrio
stagnante consono alle convenzioni da mercato. Eludendo. Rifuggendo i venditori
di frottole che propinano salvifiche ciance per quadrivi di corpi tumefatti. E
i loro becchi che mediano. Ottundendo gli echi. E negoziano. E conciliano la
materia vocale. Soffocandone la spinta. Insultando il corpo. E quei corpi. E i
corpi. Che si ammucchiano in disperazione. È qui che Gualberto Alvino lancia la
sfida alla misura. Tessendo trame espanse. Estreme. Nel delirio del dire. Con
lingua lunga. Stretta. Aguzza. Vischiosa e spiralica. Di camaleonte in agguato.
Che cambia i suoi colori per gusto dei giochi di cromia. E non per mera strategia.
Perché il Gualberto attacca. E frusta duro contro le fruste formule. Non gioca
in difensiva. Qui si tratta di regia che mira al nulla. A far deserto. Alla
gratuità del fare che dà senso ai sensi.
È l’enigma di efflorescenze
metamorfiche. Ma anche d’ingegnosi affioramenti che alimentano il tessuto
ritmico con energie spettacolose. Estrose. Bizzarramente capricciose. E
sanguigne. Ma passionalmente lucide. Da giustificarne la mostruosità.
Il suo testo si torce in un’orgia di
materia grondante di umori. Talvolta Gualberto Alvino svolta repentino. Fugge
per la tangente. Poi torna grondante per apparire di fronte e di profilo a un
tempo. Per scomporre l’immagine di sé in vortici. E analizzarne gli elementi. Radici.
Ecco che propone allora accumulazioni
drammatiche e fluttuazioni incongrue. Una Humanitas
fatta di parti anatomiche. Per esempio. È un duro atlante di anatomia che si
esplica nell’elenco spietato delle membra rivelandone la fragilità come su un
tavolo di analisi. Tarsie di cose morte.
Ma l’energia pervade il mistero dei
funzionamenti. L’incantagione straordinaria delle funzioni. Di ioni correnti.
Di stringhe vitali. In vibrazione. In occorrenza armonica. Ondulatoria.
Microsussultoria. Che montano e articolano l’accidente di esistere.
È qui che Alvino (si) scrive il corpo in
latino. L’elenco articolato nel linguaggio dotto degli antichi. Rotto in
sequenza dalla scansione libresca e didattica che ricostruisce sulla pagina i
segreti di quel corpo. Segreto e segretato attraverso il velo della lingua. In
un omaggio paradossale. Che accatasta e ridesta. Che assesta e tasta. Che si fa
paradigmatico per Gaetano Testa che di scrittura del corpo se ne intende.
Del resto Gualberto Alvino vi ritrova
empatiche vibrazioni. Quando sente che le pulsazioni del proprio esserci si
fanno carni di scrittura.
Ma in Prima della cosa è un’altra la corporeità che si avverte. Quella
del respiro. Quella che alimenta il flatus vocis. Lì c’è cantabilità. Ricerca di
suono. Lì Alvino fa i conti con la vocalità.
Più che altro un fraseggio. Come in un
sassofono. Su ritmo sostenuto. Che fa sentire i suoni delle chiavi sotto la
diteggiatura. E gli armonici. E insuffla poi. Insuffla. Ma con discrezione.
E soffia vocaboli già pronti e dissimula
un filo narrativo che si adagia. In disordine apparente nel tempo. Un tempo
tutto suo. Che va. Che viene su parole morte. O ritrovate. O ritagliate nella
memoria e poi sospese. Perché la sospensione improvvisa è ritenuta più
pregnante di quella parola in più per cui il vaso trabocca. E che innesca un processo
rapido di pericoloso svuotamento. È una sospensione che assomiglia al ritaglio
balestriniano. Ma solo in apparenza.
Qui Gualberto dà spazio al corpo
attoriale. Alla voce che chiede di essere protagonista. È l’attante che si
profila. Allora. Globale.
A volte il meccanismo di scrittura ti carica.
A volte sfibra. E la scrittura si fa specchio a volte. E guarda. A volte si riguarda.
Come se dalla superficie esterna. Dall’epiderma. Precipitasse in un abisso
ultratestuale. Totale.
Si tratta di una scrittura inquieta che
inquieta. Che trascina. E che disorienta. Che non è appagante. Ma che entra. E
chiede spazio. Penetra sotto pelle. E si espande quando naufraga nella sua
liquida ambiguità appena appena appesa a un filo di realtà che rifugge
immediatamente dall’ordinario.
Le strutture fluenti s’infrangono in
onde di flusso e di riflusso. È la circolarità della deformazione sonora sulle
emergenze plastiche della materia corporea. Perché il corpo è il risonatore. Perché
è sempre il corpo che vibra nella poesia di Gualberto Alvino. E non per nulla
richiama Tommaso da Celano. “De toto corpore fecerat linguam”. Così ricorda il
frate riferendosi a Francesco che del corpo fece linguaggio.
Ma in queste scritture si susseguono anche
altre apparizioni. E si sentono. E si vedono. E si odorano altri corpi. E
allora accade di toccarlo il corpo. Come quando Bartolomeo di Iacovo da
Valmontone segna la caduta di quello di Cola di Rienzo rimarcandone la
pesantezza. “Le
mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato.
Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a
maciello”. Forte il contrasto con Francesco. Qui.
Ecco poi che Gualberto Alvino tesse le
fila in uno spietato movimento che richiama la crudeltà disarmonica del suo
romanzo. Là comincia il Messico. Dove disfa smodatamente. Smantella.
Stritola. Polverizza il paesaggio convenzionale. Travolgendone i cascami. Ma
mirando al nulla. Facendo tabula rasa davanti a sé. In una folle corsa
all’autodistruzione. Verso un deserto oltre confine. Il deserto. “…dovranno trovare il
deserto quando verranno. Un mare di sabbia. Macerie”. Scrive.
Insomma da un capo all’altro di queste distassie
percorri i sentieri intrecciati di un labirinto empirico che si affaccia su un nulla estremo.
Un abisso. Un’esperienza di morte che sfonda la materia e trasale in una
visione ipnotica del niente. Un niente eccentrico. Però. Che si sfrangia. Non
un continuum vuoto. Ma vuoti e vuoti che si articolano nel vuoto. Tarsie di
vuoti. Buchi in cui precipitano tensioni. Come il sesso di Madame Edwarda.
Angosciante. Vertiginoso. Un baratro. Ma c’è anche un’altra prospettiva che
scintilla nelle citazioni. Un niente affilato. Algido. Che passa per i mondi di
Tommaso Di Sasso e Perzivalle Doria. Per Guittone d’Arezzo e l’Alighieri. “e si
consuma lo foco per neiente / poi per neiente lo cor mi cangiava / e per neente
altrui servite e date / ke per neente dà pene e tormenti / se dunque non potrà
essere segno distintivo assoluto / tanto m’aggrada il tuo comandamento / Dante
infernale / Guittone amoroso / morale / non le cose ma gli effetti che
producono / scorticato e vivo / il mondo perdavero uscito dai cardini / tutto
il nuovo sapere positivo / scriptor compilator commentator auctor / il faut
aller à l’essentiel / non è — Rolando — il testo che mi vuole / esso mi tesse”.
Un niente. Dunque. Che apre e chiude su
se stesso l’orbita del senso e dell’esistenza. Del senso e del corpo. Della
poesia e del poeta. Perché non c’è un testo che richiama. Che attira e
invischia. C’è un testo che tesse il poeta. Che ne scrive il corpo. Ne
costruisce la carne. Ma ad un tempo è proprio quella carne che tira le parole.
Le tira. Tira. Le attira. E il corpo ne è posseduto e le possiede. Il testo ne
è posseduto e lo possiede. Il tessuto cresce. Come cresce. La tela del ragno
quando corre incessantemente filando intorno agli ancoraggi principali la sua
geometria concentrica dal centro alla periferia. Il fatto è che quando il
lavoro è concluso. A rete finita. Il ragno è prigioniero di sé. Prigioniero del
suo essere ragno. Della sua qualità di ragno.
Non c’è vita di ragno senza tela. E non
c’è tela attiva senza ragno. Tela viva. Solo stracci di morte quando il centro è
abbandonato. Non c’è via di uscire dal proprio tessuto. È l’eterno viaggio. Che
dal centro si sposta ai confini della tela e dai confini al centro. In un’oscillazione
perenne. E c’è nelle oscillazioni un portare. Un cercare e ricercare. Una
caccia. Traccia per traccia. E sottotraccia. Che diventa parossistica quando il
ragno ha nome Gualberto. Allora è un ammassare prede. Un divorare ostaggi.
Aspro e inesorabile. Apre ancora una prospettiva. La farsa dell’enciclopedia
che si esprime nell’accumulazione tragica di oggetti. E di nomi. Di nomi come
oggetti. E oggetti come nomi. E di nomi di oggetti. È il gesto di scrivere. Il
movimento del dire. Del fare. Dell’indagare. Questo ingozzarsi di parole. Una
bulimia dissennata che suscita poi un folgorante vomito. “mi hanno chiesto un
racconto due giorni di tempo non ne ho voglia / ma pagano ho pensato al popolo
dei rifiuti / intere famiglie in viaggio perpetuo / da un bidone all’altro
ridono spingendo birocci si girano / ogni tanto a contemplare i tesori
scambiandosi sguardi / increduli gomme radio manici d’ombrello prese albicocche
/ fazzoletti sporchi dischi pugnali sillabarî cofanetti sventrati camici /
lampadine esplose registri ventilatori senza pale batterie / scariche lettere
d’amore piene di ghirigori gabbie / tastiere ventagli corde di chitarra scatole
di carne mai / aperte rubinetti televisori cornici fermacarte di corno
accendisigari / paralumi pacchi di biscotti senza biscotti la madre / tiene
alto il coperchio e i piccoli si tuffano è il padre / a dire che prendere in
posa venerabile / non un racconto un film ne farò un film senza / musica né
montaggio un unico piano / sequenza presa diretta dialoghi / confusi bidoni
come / santuarî pattume come cancro / dell’Occidente inquadrature dal basso /
monumentali / l’epopea dei reietti / puro / arcaico / straziante”. Così nelle Narranze.
Ed ancora un’angolazione sfila per
l’autodigestione che riporta ancora al niente. O meglio ancora a un buco. Che
questa volta è il buco nero. Vuoto ma denso di energia. Il buco nero del corpo
che si autoalimenta per vizio di concentrazione del senso. Ecco perché Alvino invoca
Barthes. Rivela che “non è […] il testo che mi vuole”. “Esso mi tesse”. Perché per
Rolando nell’atto di scrivere c’è il bisogno di senso. È là la significanza. Ma
il senso è anche il sogno del senso.
E in siffatte trafile. Ordinando erbari.
Indagando su manuali di zoologia. Di leoni. E alci. E pescicani. E curiosando
insaziabilmente. Su lingue. Su letterature e storie. Tra memorie e scorie. Su
cronache e istruttorie. Perfino sui viaggi di Antonio Pigafetta. Tra rom e
punkabestia. Non può non farsi spazio l’autobiografia. L’insinuarsi in
distonia. In distrofia. Ciclotimica iperemia. In polispermia sistemica. Aritmia
epifanica. Schizomania pirotecnica. Diacronia ipertonica. Stroboscopia
metapornografica entropica e catartica. Se ne dipanano sequenze come in
cortometraggi dove le alterazioni
del rapporto tra il tempo in cui si collocano i dati biografici di riferimento
e quelli poietici sono espressi fuori dalla logica corrente. In flash. In flash
back. In accelerazioni. Rallentamenti. Moviole in campo. Lacerazioni e divergenze.
Convergenze forzate e resistenze. Sovraimpressioni. Divaricazioni del senso.
Slittamenti. Distassie folgoranti e tarsie. Come nelle Narranze. Dove addirittura Gualberto Alvino cambia sesso. Si svuota
a sacco. In accoglienza di fatti e di misfatti. E infila una storia maledetta
senza prendere respiro.
È tutta una voce gettata sul sinistro. Qualche breve
stop. Come in musica quando c’è il break che serve a ridare fiato alla
sequenza. Una tirata che si
conclude in una stretta. E il lettore non ha scampo. Come la realtà di cui si
tratta. Un tunnel. Tutto a senso unico. Profondo. Un’esperienza di carne e
sesso abissali. Di rischi e di azzardi. In un vertiginoso gioco al massacro.
Cercato e voluto fino in fondo alla conquista dell’annullamento di sé. In un
paradossale quadro ipertrofico. Ridondante. Stracolmo. Traboccante di odori. Sapori.
Oggetti e movimenti.
È l’horror vacui che spinge all’accumulazione. È
il magnete che attira e distrugge. È lo schieramento del nulla. Perché il nulla
è proprio tutto questo gran chiasso di gesti. Rivelazioni di vuoto come
epifanie di morte. E la scrittura è proiezione di sé. Rilancio problematico. Limite
dell’esistenza. Ma anche conoscenza e scandaglio di realtà interiori dove trouvailles
si accavallano in una tasca oscura. Interna. Che però non ha luogo né tempo. Un
erotismo che apre scenari di vita impossibile. Ma quasi un’indicazione di
percorso. Verso un ignoto che però è già detto. È già vissuto. Ricostruito
nella narranza che della poesia si
appropria. “…mi strappano i vestiti mi spalancano le gambe si affannano / qui
dentro li incoraggio ruotando il bacino accelerando / il respiro fermandolo di
colpo il più giovane mi fissa sudando / gli afferro la barba da muezzìn
gl’incrocio i piedi dietro / la schiena ce n’è anche per te s’imbaldanzisce ne
cerco altri nuotando / nell’aria emergono dal nero e mi s’affollano / attorno
li sento in testa nel naso”. O non è la poesia che fagocita il narrare? E l’esistenza. La poesia che divaricata come
le gambe di Lady Edwarda mostra il suo sesso abissale e assoluto ove perdersi dismisuratamente.
Oltre ogni fantasma di divinità e oltre ogni contingenza. Dove la presenza è
data solo dall’assenza di sé.
09/10/2010